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            Attendevo con trepidazione il ritorno dei bulgari Irfan, una band 
            che mi ha conquistato dal primo ascolto e che non ho mai dimenticato, 
            nonostante siano passati otto anni dal precedente lavoro. La musica 
            di questi artisti affonda le radici nelle sperimentazioni dei Dead 
            Can Dance, la world music che si fonde col neo folk di matrice gotica, 
            misticismo e romanticismo fusi in un unicum di cristallina bellezza.
 
 Negli anni abbiamo incontrato molti gruppi dediti al neo folk, in 
            diverse chiavi, da quelli apocalittici, a quelli rigorosi, a quelli 
            medievali, a quelli heavenly, ogni gruppo con una propria sfumatura 
            e una precisa identità. Tra tutte queste formazioni gli Irfan 
            mi hanno sempre colpito per la profondità della loro musica, 
            che è fortemente spirituale e piacevole al tempo stesso. L’album 
            si apre sulle note sognanti della title track, una canzone che fa 
            pensare ai danzatori dervisi. La strumentazione della band è 
            prevalentemente etnica, non vi cito tutti i singoli arnesi musicali, 
            perché sono davvero tanti, da quelli a corde, a quelli a fiato, 
            alle percussioni, ne esce un sound molto pieno e caldo. Su tutto poi 
            si eleva la voce ammaliante di Denitza Seraphimova, che ora appare 
            in formazione solo come ospite. “The Cave of Swimmers” 
            è più ritmata, quasi mantrica, la prima parte è 
            un po’ ripetitiva, ma poi entra una seconda parte decisamente 
            coinvolgente e si viene rapiti verso mondi altri, dove la contemplazione 
            della bellezza prende il posto degli affanni moderni. Un flauto da 
            mille e una notte introduce “Burana”, parla di un vento 
            siberiano che soffiando porta con sé i racconti di terre lontane 
            e così fa la musica, che con grande trasporto ci apre porte 
            su orizzonti sconosciuti. Linee musicali sensuali, avvolgenti, note 
            speziate, che sanno di oriente e di bellezze antiche. L’amore 
            per i Dead Can Dance esce prepotente dalla cover dal titolo “Salamander”, 
            un brano dall’incedere epico e solenne. “In the Garden 
            of Armida” viene citata La Gerusalemme Liberata del Tasso, l’amore 
            impossibile tra un soldato crociato e una maga di Damasco è 
            il tema di questo brano denso di un romanticismo raffinato. Le magie 
            sonore continuano con “Ispariz”, che si rifà a 
            Hildegard von Bingen, una traccia molto eterea. Oriente e Occidente 
            continuano ad intrecciarsi in questo caleidoscopio di note e “The 
            Golden Horn” richiama questo percorso culturale che è 
            sofferto, ma denso di sapori. “Tebe Poem” è un 
            antico canto sacro bizantino che risale a circa il 700 DC, molto suggestivo. 
            “Day to Pray” è un brano denso di spiritualità, 
            interessante il testo, che media con la poesia temi dell’anima 
            e ne fa un moderno canto sacro. Il viaggio si conclude con “Nehet”, 
            antica parola che vuol dire sicomoro, un albero diventato leggendario, 
            il brano fa riferimento ad una leggenda tratta dal Libro dei Morti 
            dell’antico Egitto. Brano sciamanico e rituale di grande suggestione, 
            ottimo suggello per un disco davvero intenso.
 
 Occorre una profonda sensibilità per comporre musica così 
            carica di significati, che riesce ad unire bellezza e trascendenza 
            in modo tanto sublime. Gli Irfan sono uno di quei piccoli miracoli 
            che solo gli ascoltatori più attenti possono apprezzare, una 
            band capace di dischiudere le porte su regni di bellezza, che noi 
            occidentali possiamo solo sognare. Un disco veramente mistico. GB
 
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 Intervista
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