| Tony Levin, è quasi impossibile per un appassionato di rock 
            non avere almeno un disco alla cui riuscita Levin ha contribuito, 
            uno dei massimi interpreti del Chapman Stick, ma anche al basso fa 
            meraviglie, un vero fuoriclasse. Marco Minnemann, recentemente l’abbiamo 
            ammirato al seguito dell’astro crescente Steven Wilson, ha iniziato 
            con band metal come i Kreator per contribuire poi ai lavori di Paul 
            Gilbert e Joe Satriani, il suo drumming è dinamico e ricco 
            di fantasia. Jordan Rudess, prima coi Dixie Dreags di Steve Morse 
            (Deep Purple) e attualmente è il tastierista dei Dream Theater, 
            ovviamente anche il suo è un bel biglietto da visita. Tre virtuosi 
            riuniti per un nuovo progetto, ovviamente la curiosità c’è.
 
 La dinamica ed epica “Marcopolis” segna l’avvio 
            del cd, un brano scoppiettante e luminoso, che vede grandi passaggi 
            tecnici, Levin e Minnemann sono una sezione ritmica da paura e Rudess 
            non è certo da meno e sfodera dei solismi eccellenti, una maratona 
            che incoraggia all’ascolto attento di tutto il seguito del cd. 
            “Twitch” è più oscura e molto progressive, 
            i duelli fra Levin e Rudess sono da brividi, mentre Marco sfodera 
            dei passaggi ritmici da mal di testa. “Frumious Banderfunk” 
            è potente, l’incedere è lento con un buon groove, 
            Rudess e Levin si alternano nelle parti soliste, mentre Marco di diletta 
            con tempi davvero complessi, l’ultimo solo di Jordan poi è 
            davvero pazzesco. “The Blizzard” è più pacata, 
            domina il feeling, un brano romantico, dove il virtuosismo è 
            al servizio della melodia, ma sono ugualmente brividi. “Mew” 
            tra tempi e controtempi è ancora una volta terribile, da ascoltare 
            e riascoltare. Non c’è certo il tempo per riposare le 
            orecchie che ecco altri due rompicapo con la breve ma intensa “Afa 
            Vulu”, seguita dall’apparentemente semplice “Descent”. 
            “Scrod” è stata scelta per presentare il disco, 
            molto prog e inizialmente non così vivace come altre, ma verso 
            metà prende quota con un crescendo molto intenso. “Orbiter” 
            è più sperimentale, quasi space rock, onirica, ma che 
            classe però. Un po’ simile come tema musicale è 
            “Enter the Code”, in questo frangente i musicisti hanno 
            un po’ deposto le armi e si sono dedicati a composizioni meno 
            scoppiettanti, ma dense di gusto. Un calo? Macché ed ecco arrivare 
            l’irrequieta “Ignorant Elephant”, che numeri. “Lakeshore 
            Lights” è molto jazzata, meno immediata dei brani più 
            rock è comunque sempre molto godibile. Molto sperimentale nei 
            suoni anche “Dancing Feet”, di certo qui si esprime maggiormente 
            la creatività dei nostri. A “Service Engine” il 
            compito di chiudere questo scrigno di magie, un disco pieno di ottimi 
            momenti, che si conclude con un brano raffinato, sempre ad alto tasso 
            tecnico, ma anche con un gran cuore.
 
 Una volta c’erano i supergruppi e quasi sempre facevano scalpore, 
            suscitavano grande interesse e viva curiosità, oggi forse ci 
            siamo abituati alle collaborazioni trasversali, quindi vedere insieme 
            il nome di questi tre musicisti pazzeschi potrebbe non fare più 
            un grande effetto su pubblico e critica, ma sarebbe un peccato se 
            questo nuovo progetto subisse questa sorte, perché questi tre 
            fuoriclasse hanno dato vita ad un disco brillante ed entusiasmante 
            come pochi, musica piena di brio, dove l’alto tasso tecnico 
            è veramente messo a servizio dell’ascoltatore. GB
 
 Intervista a Tony Levin
 
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