Per chi non lo sapesse lo strano nome di questa band norvegese indica
una zuppetta fredda a base di verdure tritate di origine spagnola,
niente di così misterioso, però la musica e l’iconografia
di questa band ci hanno intrigato disco dopo disco, in un crescendo
che sembra non avere fine. Il gruppo ha una decina di anni sulle spalle,
con diversi album, partendo dalla scuola Marillon hanno sviluppato
un sound sempre più personale e sempre più ricercato,
lo possiamo chiamare post modern prog, se vi piacciono le etichette,
ma quello che conta è che si tratta di una band che ha sempre
cercato di evolversi.
L’immagine di una mandragora, l’erba antropomorfa tanto
cara agli esoteristi, campeggia in copertina e sotto le sue radici
compare il titolo poco rassicurante dell’album, Demon. Quattro
brani fanno da trama, di cui uno è diviso in due parti. Si
inizia con “I’ve Been Walking part 1” la voce sensuale
e senza tempo della cantante si adagia su un tappeto neoclassico molto
gotico, ma il brano prende forza con l’ingresso di tutta la
band, che propone una progressione degna dei King Crimson di Red.
Poi l’atmosfera torna a rarefarsi e incontriamo un’alternanza
di parti vigorose e altre oniriche di ottima fattura. La parte finale
del pezzo è da brividi, con una conclusione dal sapore dark
palpabile, dominata da un violino carico di una nostalgia folk indicibile.
“The Wizard of Altai Mountain” è l’unico
brano breve del disco, poco meno di cinque minuti, ma quante cose
contiene, l’inizio è indefinibile, molto elegante, con
sonorità vagamente folk e gotiche al tempo stesso, stregata
e splendida la melodia del cantato, così evocativa e sognante,
che dire poi del finale gitano. Segue “I’ve Been Walking
part 2” che ci cala subito in un mood molto misterioso, ancora
troviamo una bella alternanza di parti tranquille ad altre piene di
vigore, sopra tutto brilla il senso di dramma, conferito da un songwriting
davvero ispirato, che in certi momenti raggiunge delle vette di lirismo
insospettate. Chiude la lunga “Death Room”, la suite si
apre con un intro inquietante, seguito da una partitura minimalista
piena di fascino oscuro, il brano sfiora i venti minuti ed è
molto difficile raccontarne ogni sfumatura, ma ci sono momenti davvero
particolari e fascinosi, come la danza decadente che si sviluppa a
metà brano, tanto teatrale quanto spettrale, che poi si trasforma
in un rock ruvido di grande spessore, un brano tanto visionario quanto
magistrale.
I Gazpacho ci dimostrano che è ancora possibile scrivere musica
lasciando libera l’immaginazione e la voglia di raccontare storie
attraverso delle composizioni intriganti e molto ben costruite, certo
trovare un disco come questo non è né facile né
scontato, rischia di restare cibo per pochi, ma questi pochi possono
avere la possibilità di assaporare una musica unica. GB
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