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            ancora bene in mente l’esibizione piena di energia degli irlandesi 
            Cruachan (si pronuncia kruakan) dell’estate passata sul suolo 
            italico, aspettavo con ansia di vederli all’opera e devo dire 
            che mi sono proprio divertito, anche se personalmente preferisto il 
            loro lato più folk, mentre loro si stanno spingendo sempre 
            più verso il metal. Questo era emerso con chiarezza durante 
            il concerto, ma anche l’ascolto (postumo) del loro ultimo album 
            in studio conferma la tendenza della band ad indurire il proprio sound, 
            quasi un ritorno alle origini.
 Non a caso quindi l’album apre con un urlo selvaggio in “Shelob”, 
            il mitico ragnaccio del Signore degli Anelli, un tema che torna spesso 
            nel songwriting della band, il black metal straripa, ma c’è 
            anche qualche intermezzo più folk, con un bridge acustico, 
            ma l’impatto complessivo è davvero molto aggressivo. 
            “The Brown Bull of Cooley” è meno estrema della 
            piece precedente, il cantato di Karen aiuta a smorzare i toni, ma 
            siamo sempre in pieno metal, con le influenze folk che fanno più 
            che altro da contorno e danno al tutto un sapore molto epico. “Coffin 
            Ships” è un breve strumentale dominato dal flauto irlandese 
            che evoca una malinconia meravigliosamente austera. “The Great 
            Hunger” parla della grande carestia che ha colpito l’isola 
            nel recente passato il cui ricordo è ancora molto vivo nel 
            popolo irlandese, la musica di conseguenza è molto triste e 
            cupa, quasi doom, brano molto riuscito. “The Old Woman in the 
            Woods” è un tradizionale che il gruppo ha riarrangiato 
            col suo stile,breve e divertente. “Ungoliant” ha un po’ 
            l’aspetto di un filler, ma non pesa sulla riuscita dell’album. 
            La title track è un’altra traccia molto breve e molto 
            tradizionale, in controtendenza col resto dell’album, in fondo 
            le radici dei Cruachan sono queste e meno male che lo sanno anche 
            loro, ecco allora che si può tornare al folk metal della tradizionale 
            “Téir Abhaile Riù”. “Wolfe Tone” 
            è dominata inizialmente dal bouzouki, poi torna prepotente 
            il metal. A testimonianza della doppia anima del gruppo ecco un’altra 
            piece tradizionale riarrangiata: “The Very Wild Rover”. 
            Con “Cuculainn” si torna verso il metal più estremo 
            e gli screamings di Keith prendono il sopravvento, qualche idea buona, 
            ma per lo più è qualcosa di ritrito. “Diarmuid 
            and Grainne” chiudono la rassegna con un tocco di magistrale 
            folk metal.
 
 In fondo i Cruachan hanno dato alle stampe un altro ottimo album, 
            un gradino sopra il precedente Pagan e uno sotto quello che per adesso 
            considero ancora il loro album più riuscito, Folk Lore. A me 
            la musica irlandese piace molto, mi piace anche il metal e quindi 
            non posso non amare questo mix e, anche se si sta un po’ standardizzando, 
            continuo ad ascoltarlo con grande piacere. GB
 
 Altre recensioni: Folk-Lore; Pagan; 
            The Morrigans' Call
 
 Interviste : 2002; 2004
 
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