| Il performer poet Copernicus ha esordito la sua carriera discografica 
            con questo titolo nei lontani anni ’80, accompagnato da una 
            squadra di ben tredici musicisti, che improvvisano sui suoi versi. 
            Vi abbiamo già parlato di questo visionario profeta di fine 
            millennio in una precedente recensione, quindi non vorrei ripetere 
            concetti già espressi, ma Copernicus ci invita a riflettere 
            su temi importanti della vita, direi quasi essenziali, perché 
            esistiamo? Esistiamo? Qual è la nostra percezione dell’esistenza? 
            Ci comportiamo da persone che percepiscono di esistere? Ovviamente 
            Copernicus non sposa nessuna risposta, ma istiga interrogativi, ironizza 
            su vizi e difetti e svela ipocrisie e per introdurci in questo percorso 
            si presenta con una canzone d’amore, potrebbe sembrare strano 
            o banale, ma niente in questo personaggio è banale o prevedibile.
 
 “I Won’t Hurt You” quindi è una canzone d’amore 
            costruita su una base reggae rallentata, ma non è necessariamente 
            amore per una donna, sembra più amore verso l’ascoltatore, 
            con cui Copernicus vuole entrare in relazione e dice appunto “non 
            voglio farti male”. Perché le parole che seguono e anche 
            la musica che accompagna non sono così serene come in questo 
            pezzo dal sapore caraibico. Infatti ecco subito dopo arrivare l’apocalittica 
            “Blood”, schegge di follia visionaria ci investono ed 
            è un bagno di sangue. Poi si scende ancora di più in 
            un panorama catastrofico, Copernicus apre “I Know What I Think” 
            con la frase “Let the musicians declare war!”, ritmiche 
            dure e tirate, suoni acidi e graffianti, il testo è povero, 
            non ci sono molte parole, ma quella più significativa è 
            “I want you to change”, c’è dentro tutto 
            il messaggio di Copernicus. “Quasimodo” ci presenta l’artista 
            nel suo contesto più delirante, Quasimodo in fondo è 
            un alter ego di Copernicus e l’autore spiega il suo progetto 
            con un tono di dolore e di disperazione che disarmano l’ascoltatore, 
            anche i suoni sono duri come le parole, in fondo è un grande 
            grido di autoaffermazione, che divide l’essere che vuole esistere 
            da chi si lascia esistere. Il viaggio continua con “Let Me Rest!”, 
            anche se c’è ben poco di riposante, una lunga performance 
            che graffia come carta vetrata le nostre coscienze. Ma non basta, 
            per risvegliare le nostre assopite interiorità ecco arrivare 
            “Nagasaki”, la follia nucleare, ma alla fine c’è 
            spazio per una pace… ma ancora una volta non è chiaro 
            se la pace segue l’annichilimento totale o se è una speranza 
            futura. Ed ecco la conclusione “Atomic Nevermore”… 
            per un mondo non basato sull’illusione, per un’esistenza 
            vera.
 
 Chi si fermerà ad ascoltare Copernicus? Non certo l’ascoltatore 
            distratto… lo zombie, ma chi ci tiene a non conformarsi ai tanti 
            morti viventi che ci circondano si lascerà provocare dalle 
            visioni folli di questo scomodo profeta. GB
 
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