| Questo gruppo romano mi aveva colpito fin dal debutto su Musea, perché 
            i tre musicisti, che nel tempo sono rimasti stabili, avevano espresso 
            delle idee molto interessanti. La loro evoluzione artistica si è 
            resa evidente con l’ottimo Outside Nowhere, un disco più 
            omogeneo del debutto. Ecco allora che la mia curiosità per 
            questo terzo album era piuttosto alta: sarebbe riuscito il gruppo 
            a fare un ulteriore passo avanti?
 
 Il mio interesse poi era ancora maggiore, perché se è 
            vero che il terzo disco è quello della maturità artistica, 
            ovvero il lavoro con cui un gruppo dimostra se ha delle vere potenzialità 
            da esprimere o se, viceversa, ha esaurito le sue cartuccie coi primi 
            due album, allora Posidonian Fields diventa il vero banco di prova 
            per testare i Taproban.
 
 Come anche i due precedenti anche questo nuovo capitolo è un 
            concept. Non so se sia un caso, ma il primo album parlava dei Giardini 
            di Villa Bomarzo, quindi in un certo senso della “terra”, 
            il secondo era molto space rock, quindi “aria”, questo 
            terzo parla del mare, ovvero “acqua”, ma tralasciando 
            questa piccola curiosità, veniamo alle nuove traccie. L’album 
            è diviso in tre “capitoli” con dieci brani, il 
            primo è “Immersion”, la prima traccia è 
            un intro dal sapore misterioso, viene declamato un brano in greco 
            che da un ulteriore tocco esoterico, ma il primo vero pezzo è 
            appunto “Immersion” con una lunga parte cantata, la chitarra 
            apre con un arpeggio ed è molto onirica e suggestiva, il cantato 
            ricorda molto certi pezzi settantiani cari anche a molte formazioni 
            hard rock o certe melodie dei Caravan, ma quando entrano le tastiere 
            le atmosfere prog prendono il sopravvento, poi il sound si fa sinfonico 
            e rimanda agli Yes, ma è solo uno dei tanti cambiamenti, questo 
            brano ci porta a sondare le profondità della musica e quando 
            l’hammond C3 inizia a dominare si viene sopraffatti. Chiude 
            il primo capitolo “Caronte’s Ship, una lunga fuga d’organo, 
            vagamente ELP, ma ricorda anche certe cose di Uriah Heep, l’atmosfera 
            è cupa e fascinosa.
 Il secondo capitolo è “Suspension” che si apre 
            con “Riding in the Posidonian Fields”, solare e piena 
            di vibrazioni positive, ci sono vari echi, ma nel complesso è 
            un brano veramente bello. Con “Entwinings” si attua una 
            sterzata piuttosto brusca, con un gran basso in evidenza, poi chiude 
            il pezzo che da il titolo al capitolo in modo molto atmosferico, che 
            ricorda vagamente i Pendragon.
 Il terzo ed ultimo capitolo non poteva aprire meglio che con la piece 
            de resistance “Octopus!”, forse il brano più bello 
            e maturo del disco, ricco di passaggi memorabili. Altra perla è 
            la tenebrosa ed epica “Uncontrolled Dreams”, meno immediata 
            della precedente per la sua natura cangiante. Le profondità 
            diventano psicologiche nell’introspettiva “No Return”, 
            dove psichedelia e world music si uniscono in modo stupefacente. La 
            breve “Farewell” chiude con delicatezza l’album, 
            anche se è seguita dalla traccia nascosta “Rebirth”, 
            fra l’etnico e il medievale.
 
 Il nuovo disco dei Taproban mostra tutto il suo valore nello svilupparsi 
            dei brani, nella crescita di intensità che si esprime man mano 
            che la storia narrata si rivela, un disco bello fino alla fine e che 
            rivela i suoi tesori solo con ripetuti ascolti, così come fa 
            il mare che è sempre molto geloso di quanto conserva. Promosso 
            a pieni voti. GB
 
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        | Ero davvero curioso di ascoltare il nuovo lavoro del trio romano Taproban, 
            per diversi motivi, il più rilevante è il fatto che 
            generalmente il terzo disco è quello della verità. Positivamente 
            colpito dal debutto di “Ogni Pensiero Vola” e dal più 
            maturo “Outside Nowhere”, mi aspetto buone nuove, le premesse 
            ci sono tutte, così come le novità. La prima cosa che 
            salta immediatamente all’orecchio è l’ottima produzione 
            ed una più attenta ricerca agli arrangiamenti e questo grazie 
            soprattutto alle registrazioni effettuate nello studio professionale 
            XL Studio, nel quale Gianluca De Rossi ha potuto suonare un vero Hammond 
            C3. Le liriche sono ancora una volta basate su storie fantastiche, 
            questa volta con “Posidonian Fields” si perlustrano i 
            fondali marini e non solo, anche quelli della psiche umana, arricchiti 
            da una spruzzata di avvenimenti quotidiani. La bellissima copertina 
            curata dal solito Davide Guidoni (autore anche dei testi sennonché 
            batterista) è affascinante tanto quanto il contenuto sonoro. 
            Le novità proseguono, il cantato del chitarrista Guglielmo 
            Mariotti è più presente che in passato e pure il suo 
            contributo in fase di composizione è maggiore.
 
 Siamo al cospetto di tre suite, La prima intitolata “Chapter 
            One: Immersion”, la seconda “Chapter Two: Suspension” 
            e la terza “Chapter Three:Oblivion”. La musica comincia 
            con il mormorìo del mare, il suono è pulito e la chitarra 
            acustica di Guglielmo ci trascina nell’immersione. Sono presenti 
            richiami sia al New Prog che al Prog italiano anni ’70, ma anche 
            Yes ed EL&P. Come caratteristica del gruppo, le tastiere hanno 
            un ruolo di grande importanza e ben si amalgamano con la perfetta 
            ritmica di Davide. Spettacolare il finale di “Charter One: Immersion” 
            dal sottotitolo “Caronte’s Ship Imponderability”, 
            una corsa nei fondali marini con fughe strumentali come genere impone.
 Il capitolo due si apre con una buona melodia voce-chitarra e qui 
            i Taproban dimostrano di essere davvero cresciuti in esperienza. La 
            personalità fuoriesce, così come il pathos. Un muro 
            sonoro si staglia su di noi per poi aprirsi dolcemente nel subconscio, 
            è “Suspension”, leggera come l’aria delle 
            tastiere che la creano. Sono i Pendragon più sognanti a presentarsi 
            a noi. E via, senza soste verso il terzo capitolo “Oblivion”. 
            Lo stile Orme anni ’70 che a volte ha caratterizzato il sound 
            del gruppo, fa capolino nelle parti strumentali ma sono solo piccoli 
            sprazzi, così come i momenti più Marillioniani.
 
 Qui c’è tutto quello che un Prog fan vorrebbe sempre 
            ascoltare, un put pourrie di armonie che riempiono la mente. Ed il 
            mare ci trascina alla riva. Abbiamo dovuto attendere due anni per 
            riascoltare nuovamente i Taproban, abbiamo scommesso sul loro talento 
            ed abbiamo vinto. “Posidonian Fields” è un grandissimo 
            disco, dobbiamo essere più che orgogliosi del Progressive nostrano, 
            sempre più a testa alta e maturo. Bene, la mia curiosità 
            è appagata! MS
 
 Altre recensioni: Ogni 
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