Non ho mai incontrato di persona Mr. Martin Orford. Da anni siamo
però in contatto, grazie ad Internet (che per inciso egli non
apprezza, ma al quale come il sottoscritto ricorre per praticità)
ci scambiamo mail periodicamente, parole stringate che però
esprimono i nostri stati d’animo, le aspettative, i gusti, musicali
e non, così mi par d’essere lì, accanto a questo
tipico inglese, nel verde del sud-ovest della sua terra, che visitai
due lustri or sono e che ancora serbo nei ricordi, ad ascoltarlo parlare
del suo nuovo disco, che sarà l’ultimo.
Belle rimembranze, come la musica che l’ex tastierista del Quoziente
Intellettivo (nel quale ha militato come fondatore per ben ventisei
anni, aggiungiamo inoltre i Jadis dei primi albi, e la John Wetton
Band nel suo curricula) ci offre. Anche per questo suo secondo parto
artistico solista, si fa accompagnare da un bel team di amici, di
colleghi che condividono con lui il gusto per la bella canzone, la
strofa immaginifica. Non è una sterile parata di stelle da
esibire come l’argenteria di famiglia, ma un gruppo di cultori
dell’estetica del pentagramma, oltre che di virtuosi indiscutibili.
Madre Natura non ha dotato Martin di una gran voce, ma egli interpreta
con calore queste canzoni, queste storie alle quali ha dato forma,
celebrando la vita tranquilla della campagna, fra partite di cricket
e passeggiate immersi nel silenzio, seguendo i resti di una strada
ferrata ormai abbandonata. Apre “Grand designs”, non poteva
esserci inizio migliore, nove minuti di puro sollazzo, segue la strumentale
“Power and speed”, un pezzo ove gli strumenti si rincorrono
domati dalle sapienti mani di Nick D’Virgilio, di Dave Meros,
di John Mitchell, di Steve Thorne e di Orford stesso.
John Wetton canta “Take it to the sun”, lasciatevi rapire
da questo pezzo che ci rimanda alle glorie di “Battle lines”
e della migliore produzione solista del giramondo del prog/rock. “Prelude”
richiama gli strumentali di “Classical music and popular songs”,
e Martin giuoca col classicismo di questa intro che precede un altro
gran brano, la title-track che sintetizza mirabilmente tutti i temi,
sonori e lirici, dell’album. Alle backing-vocals un’altra
gloria, Dave Oberlé dei Gryphon, anche lui della partita! Si
prosegue con “Out in the darkness”, per poi giungere alla
prova di resistenza rappresentata dai dieci minuti ed oltre di “The
time and the season”, con la line-up a dare il meglio, a sostegno
di una altra impressionante prova di Wetton (che tra il verde di Bishops
Waltham abbia ritrovato se stesso?). “Endgame”, fine della
strada, alla fine del 2008 Martin lascerà definitivamente il
controverso mondo del music-biz. E noi ne sentiremo la mancanza, almeno
io ne sono certo. Ci lascia con “The old road”, onesto
e sincero commiato di chi ha dato moltissimo alla musica, alla nostra
musica, chiamatelo prog, rock, come volete, comunque sempre eccellente,
ricevendo in cambio sicuramente troppo poco. Mandi Martin, io ti aspetto
nel mio Friuli, siamo d’accordo, chissà che un giorno
non ci si possa davvero stringere la mano! AM
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