Rock Impressions
 

INTERVISTA AD ANDREA MIRO'
di Giancarlo Bolther

Per iniziare vorrei che tu mi parlassi del tuo percorso artistico, come hai iniziato e come si è sviluppato.

Senza voler fare una biografia cronologica, posso partire da quando ho iniziato a studiare violino al conservatorio, quindi arrivo dalla musica classica. Alla fine dell’86, ero giovanissima e andavo ancora al liceo, ho avuto l’occasione di fare Castrocaro. Tieni presente che allora non sapevo neanche cosa fosse, però avevo un amico che aveva una sala d’incisione dove si facevano molti provini, questo conosceva un tipo che voleva sfondare nel mondo della musica, ma non aveva la “faccia giusta” e nessuno gli dava retta e allora cercava qualcuno che cantasse il suo pezzo per Castrocaro, gli fecero il mio nome ed io accettai. Senza che potessimo rendercene bene conto, dopo quattro selezioni, mi ritrovai in finale a ottobre con diretta televisiva RAI in seconda serata, anche se non era un festival molto seguio per me fu una grande occasione, una cosa che non ti capita certo tutti i giorni e che io non osavo neanche immaginare, ma, al di là di questo, erano anni in cui chi vinceva Castrocaro accedeva automaticamente a San Remo.
Ero molto scettica perché avevo ancora la scuola da finire, mancava ancora un anno, poi c’erano gli esami del conservatorio con tutto quello che comportava, avevo raggiunto un certo livello e suonavo anche dieci ore al giorno e non mi interessava cercare una carriera diversa da quella che mi si prospettava. Arrivata alla fine io vinco assolutamente inaspettatamente e devo dire che la prima sensazione fu di essere infastidita da questo, perché mi trovai nelle condizioni di fare delle scelte. Incominciai a ricevere duemila telefonate dagli impresari, duemila dai produttori, c’era il figlio di Ravera che mi chiamò e mi resi conto che era già stato deciso tutto a tavolino. A valutare in sala c’erano le grandi case discografiche, quattordici grossi nomi di allora, che avevano decretato chi dovesse essere il vincitore e dodici avevano scelto me ed era ovvio che io dovevo essere il vincitore. In più Ravera mi diceva che gli facevano delle pressioni e che mi avrebbe presentato le tre o quattro case più importanti, a me che arrivavo da un altro mondo e che non centravo veramente nulla. Era impensabile per me dover immaginare di andare a discutere un contratto discografico, in anni in cui i contratti erano ancora alla vecchia maniera con plichi di pagine con mille clausole, e clausoline, note a fine pagina… cose per cui bisognava avere un avvocato… ed ho avuto la tentazione di mandare tutti a quel paese. Poi però ho pensato che in fondo si trattava di musica e quindi mi poteva interessare.
Il passaggio è stato piuttosto bello, ho firmato con la EMI, bisognava avere del materiale ma io ero impreparata ed essendo donna era automatico che diventassi un’interprete. Così mi proposero dei pezzi, ma coi gusti che avevo scartai quasi tutto e andai giovanissima a San Remo nell’87 con il brano “La Notte di Praga”, senza esperienza e con un look inadatto. La critica si chiese se la mia scelta fosse dettata dalla mia giovinezza o se ero consapevole di quello che facevo, perché ero totalmente diversa da tutto quello che c’era in quel momento, andava un certo tipo di look e io ero contraria, andava un certo modo di cantare e io ero contraria, andava un certo modo di gesticolare e io quasi non mi muovevo e tutto questo ha incuriosito la critica che si è chiesta chi fossi, poi alla fine in sala stampa è partito l’applauso. Prima di me si era esibito Paul Simon che aveva appena inciso il disco Graceland e aveva cantato un brano accappella dal vivo (cosa che in quegli anni non era molto frequente) con un gruppo di colore e aveva creato un’atmosfera magica che aveva incantato tutti. Si era creata una certa attesa e arrivo io col mio pezzo piuttosto strano e feci colpo. Sono partita molto bene e pensare che per me non era molto importante fare il festival, la consideravo solo un’esperienza utile e basta. Figurati che io mi sentivo dentro di essere prima musicista che cantante e non me ne fregava niente di essere la a cantare.
Poi però non trovavo pezzi che mi piacevano, così dopo due anni decisi di recidere dal contratto e di pensare a me stessa e alla mia vita. Ho cercato un’altra strada che mi portasse a fare le cose che più mi piacevano. Ormai ero legata alla scena di Milano e volevo mantenere una linea di sperimentazione su quello che mi piaceva di più. Siamo nel ’94, Enrico incide Oggetti Smarriti e fa una serie di provini, io partecipo e c’è anche Chiara (quella di Paola e Chiara), dalla mia avevo una notevole versatilità, la mia voce era abbastanza scura e poi sapevo suonare la chitarra, il violino e le tastiere, per cui fui scelta per fare il “gregario” sul palco, ma a me andava bene, perché questo lavoro è fatto di tante sfumature e io volevo fare più esperienze possibili. Non sono il tipo che scavalva il prossimo per arrivare, proprio per carattere, preferisco fare tutta la gavetta necessaria. Siamo partiti per una tournée con 137 date, che credo pochi si possano permettere, nei teatri più belli d’Italia facendo sold out per sei giorni di fila a Milano allo Smeraldo oppure al Sistina a Roma. Poi fui cercata da Ron e ho iniziato a collaborare con un sacco di grandi artisti (per citarne alcuni Vecchioni, Finardi, Mango), per me è stata una grandissima fortuna, perché anche se collabori per un pezzo solo, qualcosa ti rimane, soprattutto se hai voglia di imparare.
Tutto questo ha fatto si che quando mi sono sentita pronta allora sono stata in grado di realizzare il mio primo album e da allora non mi sono più fermata.

Di tutte queste collaborazioni, a parte quella con Enrico, qual è quella che ti ha dato di più?
Sicuramente quella con Ron, perché con lui ho lavorato veramente molto, non quanto con Enrico, ma è secondo come quantità, ma non solo, si è instaurato un bellissimo rapporto professionale e umano, è una persona squisita e alla mano, ci capivamo al volo ed era molto gradevole lavorare con lui, una persona molto semplice e al tempo stesso un bravissimo professionista.

Perché hai scelto un nome d’arte?
Perché alla fine degli anni ottanta andava molto il nome d’arte, poi il mio nome vero è Roberta Mogliotti, che pr una persona normale o per fare il commercialista va benissimo, ma tu te lo immagini un 45 giri in vetrina con su scritto Roberta Mogliotti? Ma chi vuoi che lo compri, nemmeno se fosse il più bello del mondo! Per cui non riuscivo a vedermi con quel nome e cognome in quella veste. Forse oggi seglierei un’altra strada, ad esempio mia madre ha un cognome molto bello, artistico, Da Monte. Invece mi sono rivolta alla pittura per il cognome e, siccome sono sempre stata un bastian contrario e mi piaceva qualcosa che facesse parlare, mi divertiva l’idea di provocare, con alcuni amici scelsi come nome Andrea, è stato un po’ un gioco.

Mi hai parlato dei tuoi ascolti, cosa ti piace maggiormente ascoltare?
Ascolto veramente di tutto, perché sono molto curiosa. Succede un po’ come coi libri, più leggi e più hai voglia di leggere tutto quello che c’è e più ti rendi conto delle lacune che hai e cerchi continuamente di colmarle, il che ovviamente è impossibile. Di conseguenza sono una che a casa ha Bach, Pergolesi, i Codici del 1400 e cose un po’ assurde, fino ad arrivare ai Metallica. Ci sono due o tre tipi di musica che culturalmente non mi interessano, perché non appartengono al mio personalissimo background, e sono il funky, che mi diverte molto, ma non scriverò mai niente di funky; mi annoia l’hip hop, a meno che non sia sofisticato, pensato, in altre parole diverso e allo stesso modo mi annoia un tipo di rock pesantissimo che adesso è molto di moda, credo sia il Black Metal, con quei cantati gutturali, mi annoiano proprio. Capisco che fanno parte di un processo espressivo che posso accettare, come certa musica molto sperimentale fatta con strumenti domestici tipo scope e bicchieri. Sarà anche interessante, ma per me non la reputo musica dal punto di vista della composizione, mi lascia indifferente.

Quindi in te convivono sia l’aspetto classico che quello rock, ma sono due aspetti in competizione fra loro?
Fortunatamente ho avuto dei maestri in conservatorio di larghe vedute, nonostante il conservatorio sia ancora una istituzione molto tradizionale. Ho avuto ad esempio un maestro di violino che ci faceva ascoltare un brano di Mozart e poi lo accostava ad un brano di musica leggera e faceva i parallelismi fra i due. Oppure ho avuto quello di armonia e composizione che oltre a farci studiare Beethoven ci portava anche brani di Jimi Hendrix. E’ assurdo che da molti musicisti non venga presa in considerazione tutta la musica di questi anni, è come se io studiassi la ruota e non imparassi a guidare la macchina, ma c’è gente che ragiona ancora così! Prendi un musicista bravissimo diplomato al conservatorio, se gli piazzi davanti una partitura e gli chiedi di improvvisare… ti posso assicurare che anche il più bravo tecnicamente e che ha orecchio, è in panico, lo vedi smarrito, non sa neanche da dove si parte. Ho potuto respirare questa apertura per cui si può mischiare musica classica, il pop, il rock e così via e vengono fuori le mie canzoni.

Tu sei un’artista che ha rifiutato di ammiccare alla classifica, è difficile sopravvivere economicamente facendo l’artista impegnata come hai scelto di fare?
Si, perché fare questo lavoro vuol dire che quando va bene hai delle belle gratificazioni, ma con queste non ci mangi e neanche con le recensioni. Se non hai la possibilità di esibirti dal vivo il resto serve molto a poco e in Italia non ci sono gli spazi, si è persa moltissimo la cultura musicale. Ad esempio mi ha colpito moltissimo che a New York o a Londra la gente andasse a vedere i concerti senza conoscere il musicista che suonava, magari sapevano solo, più o meno, il genere e poi decidevano di andarlo a vedere e soprattutto ascoltavano con attenzione. Mi è capitato invece qui in Italia di andare a vedere dei concerti dove la gente non aveva nessun tipo di rispetto per chi suonava. Bisogna inegnare alla gente che la musica è una parte fondamentale della cultura generale, come lo sono i libri, vorrei vedere se di colpo togliessero tutta la musica che c’è intorno a noi dalle radio, dalla pubblicità, dai film? La gente impazzirebbe.

Il fatto di essere coppia con Enrico sia nella vita privata che in quella professionale è più un aiuto o vi crea qualche difficoltà?
E’ una situazione dove è naturale essere sempre “operativi”, anche a casa magari prendi la chitarra e scrivi due righe e così via. Poi è una questione di equilbri e negli anni fare tante cose insieme, le tournée, le produzioni di dischi, comporre canzoni, non è poco, è un lavoro che a volte mette molto sotto pressione, perché ti viene rischiesto continuamente ed emotivamente di dare. Ogni coppia deve trovare i propri equilibri da mantenere e così anche la nostra e noi cerchiamo di barcamenarci meglio che possiamo anche se non è facile. Inoltre il nostro lavoro porta a far lievitare molto l’ego personale e questo ti fa scontrare con maggior frequenza, ma per fortuna io sono molto meno famosa di lui, altrimenti… (risate).

C’è qualche forma di competizione fra di voi?
No e forse sta in piedi tutto proprio per questo. Io stimo Enrico per tutto quello che fa, per le sue capacità, per il suo talento, per la sua testa e lui stima me per lo stesso motivo. In questo senso ci sentiamo molto complementari.

Venendo al tuo nuovo disco, ha una copertina molto aggressiva, come è nata?
Si, è un’immagine molto aggressiva e ha colpito un po’ tutti. Abbiamo fatto una sessione fotografica molto divertente con almeno cinque o sei foto molto belle, che potevano essere delle potenziali copertine, mentre questa è una delle ultime foto, fatta quasi per caso durante una pausa mentre mangiavo una mela, una di quelle fatte per “finire i rullini” e poi invece, quando l’abbiamo vista insieme alle altre, ci siamo resi conto che era quella più adatta per la copertina, perché era quella che colpiva di più. Non è che volevo colpire a tutti i costi, ma adesso nelle vetrine di dischi non è più come quando c’era il vinile, adesso ci sono cinquanta cd per cui serve un’immagine che colpisca, inoltre trovo che sia artisticamente una bellissima foto. Io non sono comunque aggressiva nella foto, è la presenza del coltello che la rende tale, inoltre c’è anche un motivo, mi piace che l’immagine sottolinei che nel disco si trovano dei contenuti che possono creare delle discussioni.

In effetti il cd si apre subito con un testo impegnativo, perché questa scelta?
Perché per me è così che un disco deve aprire, il testo che scegli per aprire un album è fondamentale, non è mai messo a caso. Questa è una cosa che mi ha insegnato Enrico. La stessa sequenza dei pezzi deve avere una logica, sia musicale che di contenuto, deve colpirti subito. Devi sapere che all’inizio, quando l’ho scrita, mi ero dilungata parecchio, faccio sempre così in genere, parto da una riflessione poi ne aggiungo altre venti, invece Enrico è esattamente l’opposto, lui ha il dono della sintesi. Questa è una delle due canzoni firmate anche da lui, ma nella realtà lui più che scrivere taglia delle cose. Mi serve in questi casi il suo distacco, perché conoscendomi sa sempre cosa tagliare, come asciugare il testo e arrivare al nocciolo e in una canzone come “Credo” è essenziale arrivare al nocciolo, altrimenti rischi di parlare di due miliardi di cose e del loro contrario.

Nel pezzo parli di un Dio “trasparente”, che rapporto hai con la fede e cosa intendi con questa affermazione?
Ho un bel rapporto con la fede, sono cresciuta in oratorio e anche in questo caso ho avuto degli incontri fortunati, cose che hanno segnato la mia vita e che mi porto dietro da sempre. In questo caso ho avuto la fortuna di avere vicino persone che non erano imbevute dell’istituzione ecclesiastica, ma della fede, per cui ho un bellissimo rapporto con il concetto di un Dio che è mio. C’era un prete, quando aveva vent’anni, che c’è ancora e che non è cambiato, che ci aiutava a suonare, ci aveva comprato l’attrezzatura, i microfoni, aveva gli hammond, insomma finanziò questo piccolo progetto oratoriale che ci permise di esprimerci. Molti di noi iniziarono così, come ad esempio mia sorella che iniziò allora a suonare la chitarra e così altri, mi ricordo degli amici che si sono diplomati in tromba… e quindi ho un bel rapporto, che non è legato tanto alla dottrina e alle imposizioni della Chiesa come istituzione. Non mi piace molto l’istituzione Chiesa, perché non la trovo adeguata a tutto quello che sta succedendo nel mondo e non la trovo molto coerente con la figura di Cristo, che penso si stia mettendo le mani nei capelli per tutto quello che vede. La Chiesa è sempre stata moltissimo politicizzata, tutti quei paraventi, gli anelli alle dita… tutte cose che non mi piacciono, tutto il resto si. Ma mi affascinano anche tutti gli altri credo, anche se non per questo cambierò mai la mia fede, perché non penso di averne bisogno. Insomma sono un po’ una bastian contraria, come le persone di fede che ho incontrato e che la Chesa ha sempre messo ai margini.

Oggigiorno sembra sempre più difficile credere in qualcosa, spesso se ne parla anche in TV, tu cosa pensi della crisi di valori del nostro tempo?
Sicuramente c’è, ma fa parte di un processo naturale, non so da sia partita, ma penso che parta da molto lontano. Se fosse per me bisognerebbe tornare indietro ai tempi dei filosofi greci e latini. Tutto quello che è successo dopo nella storia ha fatto si che ci siano oggi tutti questi adolescenti in giro che non sanno dove guardare, che hanno paura di tutto ma si sentono potenti perché sanno usare internet, le playstation, i telefonini, che sono molto avanti da un punto di vista tecnologico, ma che sono molto fragili da un punto di vista emotivo. Però nonostante questa grande crisi di valori, noi possiamo ancora permetterci di scegliere: mi passano in radio le solite dieci canzoni che mi fanno schifo? Posso spegnere e andare a cercare in un negozio di dischi qualcosa che mi piace. E questa è una possibilità che abbiamo tutti.

Quando ho ascoltato il brano “La la la” ho pensato fin da subito ad una canzone in francese…
Infatti poi arriva l’inciso in francese, in realtà il pezzo è nato in francese e la prima parte cantata in italiano è stata aggiunta dopo. Ad un certo punto non sapevo bene cosa fare, ma non volevo cambiarla, perché mi piaceva e suonava proprio bene. Così decisi di tenerla così.

La canzone che hai dedicato all’atleta algerina è emblematica dell’incontro/scontro in atto fra la nostra cultura e quella islamica, un tema sempre più d’attualità…
Infatti è una cosa voluta. Enrico segue molto l’atletica, fin da quando era bambino, e mi aveva raccontato questa storia. Il riferimento all’atletica in realtà è un pretesto, perché la canzone mette in primo piano la storia di questa atleta mussulmana che ha deciso di correre senza coperture, che è stata minacciata di morte dal mondo integralista islamico, però lei è così e mi piaceva l’idea di questa donna che ha vinto delle medaglie d’oro ed è diventata un simbolo, mi ha affascinata. Mi sono informata e ho letto vario materiale sugli atleti di quelle parti del mondo, pensando al fatto che, prima di tutto, si tratta di persone, di esseri umani e ne è venuto questo pezzo molto easy, scorrevole, ma con un contenuto molto importante. Mi piace abbinare testi profondi e melodie orecchiabili, un po’ come ho fatto in Primavera a Sarajevo.

Lilì Marlen sembra un po’ un intermezzo che divide in due parti il disco, perché proprio questo pezzo?
In realtà è un brano che io abbino a Heroes, che sono le due covers di questo disco. Desideravo cantare queste due canzoni, sia per la timbrica che per la loro teatralità, che ben si adattano alla mia voce bassa, e poi c’è un motivo forte: sono ambientate entrambe a Berlino in due momenti storici diversi, due canzoni simbolo di una città simbolo. Lilì Marlen è una canzone che ha quasi cento anni e veniva cantata sui due fronti opposti (il che è tutto dire), mentre la storia parla di un soldato che parte per il fronte. In Heroes ci sono due ragazzi, trasfigurati in questo bellissimo testo, che rappresentano tutti quelli che hanno tentato di scavalcare il muro, in un altro periodo storico. Un altro muro, un’altra mancanza di libertà, un altro problema, la guerra e la mancanza di libertà, due temi di un’attualità incredibile proprio oggi e mi sembrava bello includerli nell’album.

“Come la Luna” e “Il Pasto” sembrano due poesie musicate…
Si, è proprio così, è giusta la definizione che hai dato. Volevo fare due piccole cose, ma molto intense e nel mio piccolo credo di esserci riuscita, perché una in un modo, una nell’altro, ti lasciano qualcosa. In entrambe i casi non serve aggiungere altro anche se non raggiungono i due minuti, però danno l’impressione di essere finite. “Il Pasto” mi è venuta di getto, non ho cambiato una parola. Sai quelle cose che ti vengono quando sei in uno stato di grazia. Mentre l’altra ho dovuto cercare dentro di me delle immagini per poterla completare.

Il tuo nuovo disco è uscito in prossimità del Festival, non avevi pensato di parteciparvi?
In effetti uno pensa, ma tu sei pazza? (risate) No, primo perché sono quasi alla fine della gravidanza (fine di Aprile) e non mi sarebbe rimasto molto tempo per la promozione, ho dovuto far tutto in tempi ristretti e non è stato facile. Certo mi spiace di non avere la possibilità di andare subito a presentare il disco dal vivo, però si tratta di aspettare solo qualche mese. Poi avendo scelto come singolo “La la la”, che ha metà pezzo in francese, non ci sembrava adatto per San Remo.

A proposito delle covers, all’estero è abitudine che gli artisti le inseriscano nei loro dischi, mentre in Italia è molto più difficile…
Sembra quasi che sia banale… invece ci sono dei pezzi che sono veramente importanti che è bello rifare. E poi è un modo di fare cultura, un modo di espandere l’idea che hai di un artista, magari perché non ti aspetti un certo tipo di esecuzione o perché non ti aspetti una certa scelta e invece questo ti permette di scoprire da dove arriva un artista, quali sono le sue radici.

Per concludere volevo chiederti che impatto pensi potrà avere sulla tua carriera l’arrivo di vostro figlio?
E’ difficile dirlo, io spero di tornare ad esibirmi dal vivo verso la fine dell’estate e, se non sarà un bambino problematico, penso possa avere un impatto molto positivo sulla mia vita artistica. Credo che sarà un cambiamento molto stimolante. D’altra parte penso che già abbia indirettamente influito sulla realizzazione del mio ultimo disco, che sento essere molto femminile e credo che, inconsciamente, le due cose siano in qualche modo collegate.

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