| Intervista 
            a MASSIMO BUBOLADi Giancarlo Bolther
 
 Ho fatto varie interviste, ma questa con il cantautore Massimo Bubola 
            è stata davvero speciale. Bubola è una persona dalla 
            profonda cultura e nel corso dell’intervista questo traspare 
            continuamente. Per me è stato un vero onore ed un privilegio 
            poter conversare con questo artista e spero che la lettura di questa 
            intervista possa dare anche a voi molti stimoli così come li 
            ha dati a me.
 Buona lettura!
 
 Questa sera si conclude il “30 Bandiere Tour”, 
            che idea hai voluto esprimere con questo titolo e che bilancio fai 
            del tour?
 Ogni anno di carriera è stato un po’ come mettere 
            una bandiera, anche su zone impervie, come quando uno conquista una 
            cima e poi pianta una bandiera. In realtà è anche la 
            citazione di un pezzo di Dylan che dice “sixteen years, sixteen 
            flags”, sono dei percorsi. Fare un certo tipo di musica in Italia 
            non è stato molto facile, io ho abbinato la musica rock alla 
            musica d’autore e per me è stata una grande vittoria 
            arrivare fino ad oggi.
 
 Inoltre nel nostro paese è sempre stato difficile organizzare 
            concerti, molti artisti stranieri per anni sono stati lontani e ancora 
            oggi ci sono nomi storici del rock che fanno 200-300 persone, tu come 
            vedi questa situazione in Italia?
 Sul Sole 24 Ore di oggi ho letto un articolo su Stendall 
            dove l’autore nel 1800 diceva che a Milano nessuno leggeva, 
            purtroppo il nostro è rimasto un paese un po’ ignorante, 
            dove si legge poco e la buona musica è un po’ come la 
            pesca sportiva, bisogna prendere delle riviste specializzate per conoscerla. 
            I media, le grandi televisioni, ma anche tante radio pensano che la 
            musica sia solo qualcosa di sottofondo, mentre per noi la musica è 
            stata qualcosa di centrale nella nostra formazione. I dischi degli 
            Stones, di Dylan, di Cohen… hanno segnato i nostri anni, ma 
            anche di De André con cui ho avuto la fortuna di lavorare o 
            di De Gregori, Guccini. Per cui è un po’ una battaglia 
            in questa direzione, contro la poca informazione. La gente è 
            molto pigra e si è adagiata su queste tre tv commerciali, seguite 
            poi da quelle di Stato, che hanno sempre privilegiato questa musichetta 
            un po’ frou frou, canzoncine pop, mentre la buona musica non 
            è stata molto passata. In questo senso il nostro è un 
            paese un po’ atipico. Dylan in Italia fa tremila paganti, mentre 
            in Norvegia o in Germania ne fa ventimila, paesi dove c’è 
            più cultura musicale.
 
 Vero, tenendo conto che in paese come la Germania fa anche 
            molte più date…
 Infatti c’è una cultura musicale molto più 
            diffusa e profonda. I ventenni francesi e inglesi conoscono almeno 
            le persone importanti, mentre i loro coetanei italiani che conoscono 
            certi autori sono piuttosto rari.
 
 In effetti volevo proprio farti una domanda sulla cultura 
            musicale, tu con la tua carriera hai dimostrato di avere una profonda 
            cultura e una profonda sensibilità, mentre mi capita spesso 
            di incontrare artisti che ascoltano poco quello che fanno gli altri. 
            Io credo che questa non sia una cosa buona, perché penso che 
            più uno ha cultura e meglio riesce ad esprimersi, tu cosa ne 
            pensi?
 Sono d’accordo con te, perché molti miei colleghi 
            ascoltano pochi dischi e sono poco documentati sul lavoro degli altri. 
            Ieri sera ero ad Alessandria a cena con la band e con alcuni amici 
            e parlavamo dell’ultimo disco di Ry Cooder, di quello di Mellencamp, 
            di Knopfler e dei dischi che sono usciti, è raro parlare così 
            con dei colleghi. In Italia la maggior parte delle persone ascoltano 
            solo la musica che gli interessa, hanno quei tre o quattro dischi 
            di riferimento, ma hanno poco la visione del tutto. E poi ognuno ascolta 
            quasi solo la musica che fa, invece è importante ascoltare 
            anche la musica che non fai. Questo è un male molto diffuso.
 Poi io ho avuto la fortuna di avere una buona formazione di chitarra 
            elettrica, per cui ho sempre suonato molta musica e ne ho ascoltata 
            molta e ho anche molti amici che ne ascoltano molta. Io sono prima 
            di tutto un amante della musica e compro molti cd che poi ascolto. 
            Conosco gli autori maggiori e anche gli autori interessanti come Steve 
            Earle, che sono quasi sconosciuti, ma che sono dei bravissimi autori 
            di canzoni. Grandi interpreti come Willy De Ville, che ascolto e che 
            non sono ancora così conosciuti in Italia, John Mellencamp, 
            Tom Petty ad esempio sono altri ottimi autori da noi pressoché 
            sconosciuti.
 
 Mi fa piacere quello che dici, perché sono tutti nomi 
            presenti nella mia discografia…
 Altri gruppi che trovo interessanti sono gli australiani 
            Church e gli scozzasi Big Country che con Stelltown hanno fatto un 
            disco decisivo e che mi ha influenzato, ma poi ascolto molto anche 
            i Pearl Jam e musica di generazioni successive, perché ci sono 
            dei grandi autori anche lì.
 
 Quando ascolti un disco di un altro artista cosa cerchi?
 C’è sempre un impatto emotivo, fatto di musica 
            e di testo, l’inglese lo conosco abbastanza, infatti ho tradotto 
            molto dall’inglese, comunque è un impatto, come quando 
            vedi una bella donna non è che vai a misurare la lunghezza 
            del naso… ti piace da subito, poi dopo approfondisci. Per me 
            la musica è importante e il mio scopo è sempre stato 
            creare una letteratura del rock in Italia, che non è facilissimo.
 
 Quando ti ascolto ho l’impressione che tu sia un artista 
            molto settantiano, perché ti piace molto suonare dal vivo, 
            ti piace fare delle jam sessions, ma anche nei tuoi dischi, non sto 
            parlando di stile, ma di spirito, di un certo modo di approcciarsi 
            alla musica. Una caratteristica che manca spesso nei dischi di oggi 
            che sono troppo orientati al consumo veloce.
 In Italia ci sono tante brutte abitudini, come l’uso 
            dei sequencer o come le mega produzioni. Noi siamo un gruppo che prima 
            di tutto suona e che ha preso delle lezioni importanti, come di Dylan, 
            di non mummificare le canzoni, ma di riarrangiarle ogni volta, di 
            farle vivere, mentre in Italia si tende a fare un po’ un lavoro 
            di riproduzione. Poi ho iniziato negli anni ’70, ho evoluto 
            nel tempo il mio rock, ma ho anche avuto una carriera abbastanza uniforme, 
            per essere in Italia. Ci sono dei miei colleghi che magari hanno fatto 
            dischi rock, poi ne hanno fatto un paio pop, poi sono tornati a fare 
            rock, invece io ho avuto una carriera abbastanza omogenea.
 
 Quando fra appassionati si parla di rock, si distingue fra 
            rock americano e rock inglese, mettendoli un po’ in contrapposizione, 
            ad esempio si pensa al rock americano come quello easy listening, 
            mentre a quello inglese come più colto e ricercato, vedi il 
            progressive. Tu come vivi questa contrapposizione, hai delle preferenze?
 Per me sono delle categorie sbagliate, perché il rock 
            americano è molto più legato a degli stilemi più 
            classici, al folk irlandese e inglese, al country, al tex-mex, pensa 
            poi che la più grande band inglese, gli Stones, fanno fondamentalmente 
            rock americano legato al blues, più o meno quello che faccio 
            io. Il progressive non l’ho mai amato, perché ha creato 
            pochi testi, era una musica più legata a delle difficoltà 
            esecutive, a delle ricerche esecutive a volte un po’ fine a 
            se stesse e poi non ha prodotto testi. Spesso i musicisti progressive 
            non avevano nessuna cultura letteraria. Il rock americano si sposta 
            di millimetri, ma gli spostamenti sono reali, quello inglese ha meno 
            radici.
 
 Secondo te il rock italiano ha una sua identità? Qualcuno 
            si spinge a dire che non esiste…
 All’estero non tanto e in Italia nemmeno ed in effetti 
            siamo in pochi a fare rock vero.
 
 Te la senti di fare qualche nome di chi fa rock vero in Italia?
 Beh, l’ha fatto Eugenio Finardi, anche Bennato, ma 
            non sono tantissimi.
 
 Un artista che penso abbia preso da te, non nel senso che 
            ti ha copiato, ma come fonte di ispirazione, è Enrico Ruggeri, 
            che ha fatto anche lui un disco dal titolo Amore e Guerra, vi conoscete?
 Si ci conosciamo, lui però ha fatto più pop 
            che rock, qualche volta si. Fra di noi c’è stata una 
            buona amicizia quando stavo a Milano. Però, secondo me, lui 
            è più uno chansonier, anche se ha avuto dei momenti 
            di rock anche diretto.
 
 Ieri c’è stato il funerale di Pavarotti, uno 
            dei pochi artisti che hanno cercato di avvicinare il mondo della musica 
            colta al mondo del rock, perché secondo te questi due mondi 
            sono ancora così lontani?
 Intanto non è musica “colta”, perché 
            se leggi i testi della lirica mediamente sono stati scritti dai cosiddetti 
            “Scapigliati” milanesi e sono dei testi poveri se li confrontiamo 
            con un testo medio del rock, ad esempio con Ruby Tuesday dei Rolling 
            Stones, non c’è paragone. Il concetto che questa sia 
            musica colta e che ce ne sia una non colta è un concetto assolutamente 
            da sfatare. In quegli ambienti li c’è un’ignoranza 
            spaventosa sia culturale che musicale, Pavarotti probabilmente era 
            incuriosito e si è mosso in quella direzione, infatti ai suoi 
            funerali c’erano pochi cantanti lirici e più pop e rock.
 
 Mi ricordo che a un tuo concerto di qualche anno fa avevi 
            detto che consideravi l’Irlanda come una tua seconda patria 
            ideale, volevo chiederti, com’è l’Irlanda di Massimo 
            Bubola?
 Io l’ho conosciuta negli anni settanta, allora era 
            un paese molto povero, però aveva una grande coscienza delle 
            proprie radici e una grande musicalità, tutti suonavano e c’era 
            un grande fermento musicale. Mi ricordo tante band con formazioni 
            miste, c’erano ragazzini coi capelli arancioni che suonavano 
            anche con gente di ottantanni, loro hanno un repertorio di circa due 
            trecento canzoni che tutti conoscono e condividono e questo ha fatto 
            si che l’Irlanda negli anni ’80 e ’90 sia diventato 
            uno dei paesi più importanti nella musica. Questo a dimostrazione 
            che se uno non ha radici, non ha neanche futuro. Ogni artista si è 
            appropriato della musica tradizionale e l’hanno suonata a modo 
            loro, pensa ai Pogues che l’hanno mischiata ad un po’ 
            di punk e un po’ di jazz, gli U2 con il rock, poi penso agli 
            Emotional Fish, agli Hothouse Flowers che sono più verso il 
            soul, ma tutti quanti con le radici irlandesi.
 
 Alcune tue canzoni sono tristi e malinconiche, anche se trovo 
            che ci sia sempre una profonda serenità di fondo, tu sei una 
            persona malinconica?
 No, no, è che la malinconia nelle canzoni a volte 
            da dei grandi risultati, come accade con le storie “nere”, 
            le murder ballads per esempio. In fondo la cronoca nera è più 
            intrigante della cronaca bianca, quindi a volte vengono meglio.
 
 Penso di poter dire anche che dalle tue canzoni traspare una 
            profonda spiritualità, anche se a volte è nascosta nei 
            testi e bisogna ascoltare con attenzione, tu che rapporto hai con 
            la fede?
 Sono un cattolico praticante, ho una fede coltivata e chiaramente 
            nelle mie canzoni questo risulta. Ci sono mie canzoni dichiaratamente 
            religiose come “Davanti a Te” e ci sono riferimenti costanti 
            anche con immagini o della Bibbia, frasi di San Paolo. Un padre gesuita 
            di Milano ha fatto un’analisi di questo tipo, ha sostituito 
            l’oggetto amoroso con Dio e sono saltate fuori delle grandi 
            preghiere, è una cosa che vivo molto e che cerco di trasfondere 
            nelle mie canzoni, perché alla fine le canzoni che fai rispecchiano 
            quello che sei.
 
 Adesso che il tour è finito, immagino che avrai già 
            degli altri progetti su cui lavorare…
 Si, a gennaio esce il disco nuovo, sarà un disco molto 
            elettrico, perché sono legato agli anni ’70, ma vivo 
            in questi anni. Quindi sarà un disco un po’ intimista 
            ma elettrico.
 
 Vorrei chiudere questa intervista lasciandoti libero di esprimere 
            qualcosa che hai dentro e che desideri condividere…
 Oggi la gente ormai è sempre più convinta che 
            solamente le cose famose sono belle, invece la bellezza va cercata, 
            va scoperta, nessuno te la regala. Le cose facili che ti regalano 
            tutti sono sempre delle fregature. Bisogna fare un minimo di sforzo 
            per trovare la bellezza, ma anche per trovare l’amore, per trovare 
            la fede, tutte le cose richiedono un minimo di impegno. Anche ascoltare 
            un buon concerto richiede un minimo di impegno. Purtroppo viviamo 
            in un epoca del disimpegno e quindi se uno non ha un po’ di 
            personalità, fa un po’ fatica.
 
 GB
 
 Recensioni: Ballate 
            di Terra & d'Acqua; Romagna Nostra; 
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